A volte la lettura non è solo un gesto intellettuale. A volte è un atto di amore, di lutto, di resistenza.
Così è stato per me aprire Tre ciotole. Rituali per un anno di crisi (Mondadori, 2023), l’ultimo libro di Michela Murgia, scritto nei mesi che precedono la sua morte e pubblicato mentre l’Italia — e il mondo — continuava a fare i conti con i fantasmi recenti della pandemia, della solitudine, della malattia.
È difficile recensire un’opera come questa senza cedere all’emozione, senza avvertire quella sensazione straziante di perdita personale che si prova quando una voce che sentivi vicina, radicale, potente, si spegne troppo presto. Ma proprio per questo, leggere Tre ciotole non è stato solo un incontro letterario: è stato un rito di passaggio. E come ogni rito, lascia dentro qualcosa di trasformato.
Il senso delle “Tre ciotole”
Il titolo nasce da un gesto quotidiano, apparentemente semplice: suddividere i pasti in tre ciotole separate, un rituale nato dalla malattia e trasformato in sistema di sopravvivenza. Ma come spesso accade con Murgia, il gesto individuale si fa metafora collettiva. Le tre ciotole diventano allora strumento per misurare il tempo, il dolore, la trasformazione. Sono ciò che resta quando la normalità implode e bisogna inventare un nuovo ordine, anche solo per continuare a esistere.
“Le tre ciotole rimettevano a posto tutte le gerarchie tra stomaco e cervello…”
Sono queste le immagini che rendono Tre ciotole così potente: la capacità di raccontare il dolore senza retorica, la malattia senza autocommiserazione, la perdita senza lacrime facili. Murgia, con lucidità affilata, ci restituisce la crisi come rito, e il rito come unica via di salvezza.
Una narrazione corale, frammentata, umana
Il libro si compone di dodici racconti, ognuno indipendente ma tutti connessi da un filo invisibile, quasi mistico. Alcuni personaggi ricompaiono, altri si allontanano per poi riaffiorare. C’è un senso di continuità sottile, come se fossimo dentro un universo condiviso in cui ognuno recita il proprio dolore, la propria rinascita, la propria resa.
La narrazione salta dalla prima alla terza persona, mischiando registri, punti di vista e persino generi. Alcuni racconti sembrano realistici, altri sfiorano il grottesco o l’allegoria. Ma in tutti vibra una profondissima comprensione dell’umano, delle sue manie, dei suoi rituali ossessivi, dei suoi desideri inconfessabili.
“La quantità di cose che le persone rivelano senza saperlo durante le dirette online mi fa pensare a un inconscio desiderio di rovina.”
Siamo spettatori di vite spezzate e ricomposte, di relazioni interrotte, di scelte non dette, di vuoti familiari e desideri infranti. La pandemia, che fa da sfondo a molte storie, diventa il grande trauma collettivo in cui ciascun dolore individuale si riflette, si amplifica, si trasforma.
Dolore, amore, sopravvivenza: ogni racconto è una soglia
Uno dei meriti più evidenti del libro è l’assenza di giudizio. Murgia non vuole insegnare, né consolare. Vuole ascoltare, dare voce a ciò che normalmente resta sotto la superficie: il fastidio, il rigetto, il non detto.
E ci riesce. Con una scrittura diretta, pulita, tagliente, ci mette di fronte a realtà spesso inconfessabili: l’odio per i bambini di una madre surrogata, l’inadeguatezza di un professore in attesa di un figlio, il rifiuto della guarigione, l’accettazione del proprio corpo in mutazione.
Ogni racconto è una soglia di crisi. Ogni personaggio è un corpo fragile in equilibrio sul filo. Ogni parola è una possibilità di comprensione, di contatto, di sospensione.
Una voce che non muore
Ciò che rende Tre ciotole insostenibile e prezioso al tempo stesso è sapere che questa è l’ultima opera di Michela Murgia. E che in essa ha messo tutto: la malattia, certo, ma anche la sua voce più limpida, la più essenziale. Non ci sono digressioni superflue, non ci sono provocazioni intellettuali o manifesti ideologici: c’è solo vita. Nuda, disordinata, dolente. Ma sempre pulsante.
“Preferirebbe non saper fare nessuna di queste cose a patto di non ammalarsi mai? Le amebe non sviluppano neoplasie, ma non imparano lingue. Le amebe non scrivono romanzi.”
Le storie non finiscono con l’ultima pagina. Restano. Ti si attaccano addosso. Continuano a parlarti quando chiudi il libro o quando spegni l’audiolibro, come è successo a me.
E quando tutto tace, quel silenzio parla ancora con la sua voce.
Conclusione: Tre ciotole non è solo un libro. È un’eredità
È difficile dare un giudizio a un’opera come Tre ciotole. Perché non è solo letteratura. È un lascito. Un testamento dell’anima. È un insieme di frammenti che compongono una mappa del dolore umano, ma anche della sua resistenza.
Ho letto questo libro in cerca di sollievo, trovando invece una forma nuova di presenza. Perché Michela Murgia, con questo libro, non se n’è andata. Ha semplicemente fatto un passo indietro per lasciare spazio alle nostre voci, ai nostri dolori, alle nostre tre ciotole quotidiane.
È un libro da leggere lentamente, da rileggere, da ascoltare, da metabolizzare. Non per trovare risposte, ma per non sentirsi soli nella domanda.
“Ognuno si salva come può. E se non può, si racconta una storia.”
Consigliato a:
- Chi cerca un libro intenso, intimo, non consolatorio
- Chi ha amato Michela Murgia e sente il bisogno di ascoltarla ancora una volta
- Chi ha vissuto o sta vivendo una crisi personale
- Chi sa che, a volte, la letteratura è l’unico modo per dare un senso all’incomprensibile
